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Intelligence ecclesiastica tra Parma e Milano

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La storia che intendiamo raccontare ne racchiude tante altre, formando una serie di complessi intrecci, o di “reti” nate a Parma (come nel resto d’Italia) a supporto del movimento partigiano e soprattutto di quanti erano giornalmente in pericolo di vita. Lo spoglio degli archivi, sempre più sistematico, sorprende oggi gli storici per la ricchezza documentaria che si apre ai loro occhi. La storia che se ne ricava copre luoghi, latitudini, e persone, svelando inimmaginabili intrecci.

Il caso di Parma è un esempio di resistenza ad ampia latitudine: nel senso che Parma, anche per la sua collocazione geografica, fu al centro di azioni clandestine e “sovversive” provenienti da lontano e dirette lontano. La città, com’è noto, divenne fulcro di azioni coraggiose, sia individuali sia costruite su una regia complessa. La città rappresenta quindi una storia di partigiani in sinergia coi servizi alleati, di analisti in incognito, di organizzazioni spionistiche clandestine, di militari e civili che dissero il loro “no” alla Repubblica di Salò pur restando al loro posto.
 

Ma Parma è anche una storia di preti e di religiosi impegnati con passione civile a tenere le fila di reti informative e di salvezza per la liberazione della città e dell’Italia. La storia della rete “Nemo”, di cui Parma fu una delle più importanti sezioni di Intelligence, non è nuova, anzi è stata diffusamente trattata. Essa nacque dall’Office of Strategic Services (OSS, l’agenzia americana antesignana della CIA) e si radicò proprio nel cuore della Repubblica Sociale Italiana fin dal marzo del 1944. A tesserne le fila era il Capitano di Corvetta della Regia Marina, Emilio Elia, sbarcato da un “Mas” a Punta Corona, nelle Cinque Terre vicino Monterosso, la notte del 18 marzo 1944. Elia mostrò di sapersi ben muovere soprattutto nel parmense e nel milanese, e di saper ben scegliersi i suoi uomini. Iniziò così l’avventura della rete “Nemo”, che fu organizzata in sei ramificazioni, di cui Parma e Milano furono le più importanti per la raccolta delle informazioni, la sorveglianza dei movimenti dei nazifascisti, per le comunicazioni in cifra di notizie vitali e urgenti, e per dare aiuto a chi era in fuga, preparando documenti falsi per chiunque ne avesse bisogno.
 

“Nemo” significa anche pagine di storie personali di Parma, tra cui una vecchia conoscenza del Comandante della Nemo Elia: ovvero don Paolino Beltrame Quattrocchi, monaco benedettino dell’Abbazia di San Giovanni, già Cappellano militare in Croazia, con un fratello, don Tarcisio, anche lui benedettino impegnato come cappellano in Marina. Figli di Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi (primo e sinora unico esempio di coniugi beatificati insieme), i due religiosi si sarebbero dimostrati assai determinanti nel mantenere in piedi la rete (la c.d. “maglia”) della “Nemo” a Parma. Da cappellano militare don Paolino aveva fatto base a Fiume, presso il Comando del 23° Settore del Regio Esercito, dov’era arrivato nell’aprile del 1941. Si era nel pieno dell’emergenza per il massiccio afflusso dal confine orientale italiano di ebrei provenienti dalla vicina Jugoslavia, fuggiti dopo l’attacco delle truppe dell’Asse, e soprattutto dopo l’avvento degli “ustascia” in Croazia. Nelle carte di don Paolino leggiamo che, proprio a partire da allora «si impegnò a più riprese, d’intesa e in concorso con ufficiali del R. Esercito e con funzionari della Questura di Fiume, a occultare e trasferire clandestinamente in Italia (dove ancora non vigevano le leggi razziali) intere famiglie di ebrei, dalle zone di Carlovac, Gospic, Ogulin, Otocac, Plaski, Pago, per sottrarli alla feroce persecuzione anti-semita del Governo di Pavelic e degli Ustasha».
 

La menzione dei contatti fra don Paolino Beltrame Quattrocchi e i «funzionari della Questura di Fiume» nelle operazioni di assistenza agli ebrei ex jugoslavi evoca il nome del commissario di Pubblica Sicurezza che dirigeva l’ufficio stranieri di quella Questura: Giovanni Palatucci. Don Paolino non ne fa il nome, ma gli elementi emersi dalle carte fanno supporre contatti sistematici con il commissario di Montella, dichiarato “Giusto tra le Nazioni”, così svuotando di senso le sterili polemiche sul suo presunto “collaborazionismo”.

Ma proseguiamo con la narrazione. La sera del 24 maggio 1943, venne a cena nella casa romana dei Beltrame Quattrocchi un personaggio ben noto a don Paolino e a don Tarcisio. Era don Emanuele Caronti, Abate generale della congregazione cassinense di prima osservanza (poi detta “sublacense”) e già Abate al Monastero di San Giovanni a Parma. La visita di Caronti rientrava nella normale consuetudine della cerchia di amici e conoscenti di casa Beltrame Quattrocchi; ma la mattina don Caronti si era recato all’Ordinariato Militare, incontrando don Tarcisio. Solo un incontro di circostanza, questo? Solo una visita di cortesia, quella dai Beltrame? Del resto, i tempi bui e gli eventi successivi (soprattutto dopo lo sbarco in Sicilia e la caduta di Mussolini) avrebbero conferito ai contatti con l’abate di Subiaco ben altri importanti significati.


Sei giorni dopo la caduta di Mussolini, il 31 luglio 1943, don Tarcisio Beltrame aveva fatto fece ritorno a Roma da Parma. Era andato a trovare il fratello, e recava con sé certi plichi e lettere. Che la guerra continuasse anche con Badoglio era incerto, e il futuro lo era ancor di più. Comprensibile quindi la preoccupazione di Maria Beltrame, espressa nelle lettere al figlio Paolino. Si tratta di una corrispondenza a tratti sorprendente, anche con raccomandazioni all’apparenza incomprensibili: «Ti raccomando – scrive Maria a don Paolino il 5 gennaio 1944 – di non tenere a portata di mano di tutti i ragazzi che potranno venire a giocare in camera tutti quei libri e giochetti che portasti da Subiaco». Che senso poteva avere una tale raccomandazione nella ferrea clausura benedettina? Quali libri e quali giochetti procuratisi a Subiaco don Paolino doveva sottrarre a mani e sguardi indiscreti? Maria Beltrame usava delle perifrasi o dei “codici”?


Una lettera di don Paolino da Firenze, datata 16 febbraio 1944, forse chiarisce il mistero. «Tarcisio dovrebbe procurarmi un’altra ventina di quei fogli stampati a Subiaco – scriveva don Paolino alla madre – che potrei avere per ½ [sic] di don Igino, con tutti gli allegati; presumo non avrò tempo di andare a Subiaco, dovrebbe andare subito [sottolineato nel manoscritto, ndR] procurandomeli, sicché io li trovi a Roma. Possibilmente, se ce ne sono, anche cartoline illustrate di Subiaco».

Da una successiva lettera di Maria Beltrame del 1° marzo 1944 apprendiamo che probabilmente don Paolino non passò più da Roma; si capisce comunque che altre lettere gli sarebbero state inviate dalla Capitale. Contenevano, queste lettere (inviate non per posta ma tramite corrieri fidati), ciò che don Paolino aveva chiesto da Subiaco?


E cos’erano i fogli stampati, gli allegati e le cartoline che don Paolino aveva chiesto da Subiaco, per mezzo di un certo don Igino? Questi altri non era che don Igino Roscetti, parroco della Cattedrale di Sant’Andrea di Subiaco. Si tratta di un personaggio assai interessante, al centro di un traffico di falsi documenti stampati presso il locale Monastero di Santa Scolastica, un luogo con una plurisecolare tradizione nel campo della stampa di altissima qualità. Ebbene, fra le carte di don Igino Roscetti abbiamo trovato la conferma che, oltre ad aver questi aiutato (con una rete locale che, in Subiaco occupata dai nazisti, faceva capo addirittura agli uffici comunali e a vari personaggi di spicco, fra i quali l’Abate di Santa Scolastica don Simone Lorenzo Salvi) molti ebrei e ricercati locali a sfuggire dalle grinfie dell’occupante nazista, egli era anche in contatto diretto con don Tarcisio Beltrame Quattrocchi, non a caso incaricato dal fratello, nel febbraio 1944, di procurarsi da Roscetti dei «fogli stampati». Si trattava quasi sicuramente di modelli di carte d’identità, di lasciapassare e altri documenti che la stamperia benedettina di Subiaco riusciva a falsificare alla perfezione.


Quest’attività di falsari, peraltro molto utile alla Rete “Nemo”, mirava a salvare vite umane anche a Parma. Nelle carte dell’OSS riguardanti l’organizzazione “Nemo” vi è la conferma che quei documenti erano talmente ben contraffatti da essere addirittura migliori degli originali; una raffinatezza che all’epoca solo certi monasteri benedettini potevano vantare.

Va tuttavia sottolineata una circostanza. Don Paolino Beltrame Quattrocchi non era un “falsario” di primo pelo. Egli aveva procurato documenti falsi già in precedenza, e in particolare dopo l’otto settembre. La notizia dell’armistizio di Cassibile lo aveva sorpreso a Roma mentre si trovava in licenza. E a ridosso di quei tragici eventi (presumibilmente fra l’8 e l’11 settembre 1943) don Paolino aveva chiesto a Subiaco la fornitura di un certo quantitativo di «breviari Caronti» (altra espressione in codice) e di altro materiale utile alla falsificazione di documenti e di vari lasciapassare, carte annonarie ecc. .


Qui la cronologia è importante. Forse fu proprio dopo aver ottenuto quel materiale che, fra il settembre e l’ottobre del 1943, don Paolino svolse almeno tre importanti missioni da Parma a Fiume, sua vecchia sede di servizio, facendosi aiutare anche da funzionari della questura parmense (è nota la figura di Emilio Cellurale), da ufficiali del Regio Esercito (come il Maggiore Max Casaburi) e dal Presidente del Tribunale Speciale di Parma (il Gen. Griffini), al fine di trasferire intere famiglie ebraiche verso l’interno dell’Italia o verso la Svizzera, «sotto falso nome, con documenti d’identità falsi e riuscendo anche a rifornirli di carta annonaria e spesso di denaro» (questo narrano le carte di don Paolino). L’operazione coinvolse anche Milano, dove il benedettino poteva contare su sicuri amici, come Riccardo De Haag, su importanti referenti laici e religiosi e soprattutto sul cardinale Ildefonso Schuster. Don Paolino rischiò anche l’arresto da parte dei tedeschi, riuscendo a riparare a Trieste grazie all’amico colonnello Ponzo. Tornò a Parma non prima di aver adempiuto la sua missione di salvataggio per cui stava rischiando la vita.


A Parma (come a Milano) tuttavia non c’era solo la “Nemo”. Gli stessi personaggi spesso erano in altre reti, ognuna con una sigla, con una storia e con precisi referenti. La rete “Nemo”, diretta da Elia, fu un validissimo ausilio per l’avanzata degli Alleati dal sud della penisola. «A Parma contattai don Paolino Beltrame Quattrocchi (alias “Fulvo”), una mia vecchia conoscenza, il cui coraggio ho altamente apprezzato. – racconta Emilio Elia nel suo rapporto di “fine missione” – E attraverso “Fulvo” ho incontrato il Capitano Riccardo De Haag (alias “Alpino”), il quale fin dal principio ha dato un magnifico contributo al nostro lavoro. Fulvo mi ha quindi introdotto a una persona in contatto con il CLN, così permettendomi di incontrare alcuni membri del partito liberale, incluso il Barone Rinaldo Casana il quale, a sua volta, mi ha introdotto al Colonnello Artesani, al Colonnello Elmo, al prof. Borroni e ad alcuni altri. In tal modo fui in grado di ottenere le prime informazioni che, per il tramite di Alpino e del Sottotenente Guido Tassan (alias “Corriere Primo”), furono recate a Pisa e trasmesse da Urbano». Ma Parma ricorda anche i nomi di don Giuseppe Cavalli, di don Ennio Bonati (“Gabbiano”), di Giovanni Vignali (“Bellini”) e di Giampaolo Mora (“Daino”). Alla memoria del già citato Casaburi (nome in codice “Montrone”), la città ha dedicato un gruppo scout e una via. Fra l’altro, Casaburi fu anche impegnato in un’altra missione segreta della “X Mas” in difesa della Venezia Giulia; per riconoscerlo, il suo “contatto” (il Capitano di Marina Antonio Marceglia) ricevette la frase in codice «Fulvo è arrivato e sta bene». E “Fulvo” altri non era che don Paolino.


Una storia di reti e di intrecci, dunque. Nella rete clandestina, a Parma come a Milano, ci furono anche altri preti, fra cui degli scout (come don Tarcisio, fratello di don Paolino Beltrame Quattrocchi). La storia delle “Aquile randagie”, l’organizzazione scout antifascista segnalatasi per molte operazioni di soccorso agli ebrei grazie alla rete Oscar (Opera Scoutistica Cattolica Aiuto Ricercati), meriterebbe molte pagine. Non ci stupirebbe ritrovare in qualche archivio delle “Aquile” timbri e carte intestate per documenti falsi di espatrio. E’ una storia, questa, che da Parma si dipana verso Milano (tramite don Paolino e il Cardinale Schuster) e poi verso la Svizzera, e che, oltre alle “Aquile”, chiama in causa altri personaggi: a Parma sorella Luisa Minardi della Croce Rossa (oblata benedettina proclamata “Giusto tra le Nazioni”), don Ennio Bonati e il senatore Giampaolo Mora; a Milano don Andrea Ghetti, don Enrico Bigatti e don Giovanni Barbareschi, coordinati da Giulio Uccellini, capo delle “Aquile Randagie”.


Per i «fogli stampati» a Subiaco, per i cosiddetti «breviari Caronti», per le azioni “corsare” e clandestine, i protagonisti di questa storia rischiarono la vita (e in alcuni casi la persero, come avvenne per Max Casaburi e altri). Ma la rete informativa che si dipanò fra Parma e Milano, e sparsa altrove, funzionò e salvò vite umane. Don Paolino e don Tarcisio Beltrame Quattrocchi furono i protagonisti di questa storia di salvezza: una storia cui potrebbe dare ulteriore slancio il progetto (che abbiamo ancora allo studio, ma che già si avvale della liberalità di Francesco Beltrame Quattrocchi, nipote dei due monaci benedettini) di digitalizzare e rendere pubblicamente consultabili, in ossequio alle leggi archivistiche, le carte di famiglia.