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La guerra fredda scritta di pugno del Papa

ARCHIVI: DAI CHIROGRAFI DI PIO XII

Non esiste una sovranità degli Stati esente da obblighi sociali. L'egocentrismo è alla radice dei conflitti del passato; e vi è la necessità di vincerlo o perlomeno di frenarlo per evitare nuovi conflitti.

Lo dice Pio XII in uno dei più importanti radiomessaggi natalizi del secondo dopoguerra, quello del 24 dicembre 1948, di cui è stato reso noto il manoscritto originale, il chirografo papale con le correzioni autografe.

Il Piano Marshall sta ormai ricostruendo l'Europa occidentale, mentre l'Unione Sovietica ha imposto ai suoi vicini di respingere i soldi americani, accusando gli europei occidentali di essere dei “valletti” al soldo di Washington. Siamo ormai in piena “guerra fredda”. Il colpo di Praga del febbraio 1948 apre gli occhi sulle nuove dimensioni di essa. Coi sovietici non è possibile trattare, e il nuovo presidente Truman ne è profondamente convinto, specialmente dopo il “lungo telegramma” di Kennan circa la nuova strategia che gli Stati Uniti devono adottare nei confronti di Mosca. Ne è prova il blocco di Berlino attuato dai sovietici, e fallito per il “ponte aereo” americano. Il Patto di Bruxelles del marzo 1948 istituisce così una difesa avanzata dell'Europa occidentale in chiave antisovietica. Di lì a un anno, quel patto si allargherà ai partner nordamericani, Stati Uniti e Canada, nell'alleanza della NATO.

E' questo il quadro in cui si muove, nel secondo dopoguerra, la diplomazia di Papa Pio XII, e i chirografi papali venuti recentemente alla luce in occasione della mostra su Eugenio Pacelli, appena aperta in Vaticano, dimostrano tutta l'attenzione che il pontefice mette nello studio dei problemi mondiali. E la fine di quell'anno 1948 ne è un esempio lampante.

Il papa prepara a mano tutto il discorso del Natale 1948. A mano lo corregge e ricorregge, con chiose dense e minute, ma ordinate, come la sua grafia. Che cosa emerge, da questo discorso, in merito ai problemi del mondo del dopoguerra?

Per Pacelli esistono due poli opposti: vi sono coloro che si rifanno al detto Si vis pacem para bellum, adagio «non del tutto falso, ma che si presta a essere frainteso, e si cui si è spesso abusato»; mentre altri credono di potersi crogiolare nella formula pace a tutti i costi. Secondo Pio XII entrambe queste parti vogliono la pace «ma ambedue la mettono in pericolo; gli uni, perché destano la diffidenza; gli altri perché incoraggiano la sicurezza di chi prepara l'aggressione. Ambedue quindi compromettono (il papa cancella:la frase: in qualche modo nuocciono), senza volerlo, la causa della pace, precisamente in un tempo in cui l'umanità (vocabolo inserito al posto di il mondo) schiacciata sotto il peso degli armamenti, angosciata dalla previsione di nuovi e più grandi conflitti (parola che Pio XII preferisce a un più apocalittico distruzioni), trema al solo pensiero di una futura catastrofe».

Ma quali sono i caratteri della vera pace? Essi sono già rintracciabili nei radiomessaggi natalizi del 1941 e del 1942, ripresi dal New York Times con grande risalto. Per Pio XII, la vera volontà di pace è assenza di rivendicazioni legate al prestigio e all'onore nazionale, nonché rifiuto di perseguire con la forza delle armi la rivendicazione di diritti, quantunque legittimi. Gli stati, dal canto loro, hanno un preciso dovere di educare l'opinione pubblica ai valori della pace. Del pari vi è il sacrosanto dovere di isolare i violatori dei diritti altrui. Il Pontefice esprime l'auspicio che le Nazioni Unite, che hanno da poco varato a Parigi la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, divengano «la prima e pura espressione di questa solidarietà nazionale, cancellando dalle sue istituzioni e dai suoi statuti ogni vestigio della sua origine, che era stata necessariamente una solidarietà di guerra!» Nazioni Unite sì, dunque; ma non unite a eterna punizione degli ex nemici, ma semmai recuperandoli nel consesso internazionale; e tutto ciò per il miglioramento delle condizioni di vita dell'intera umanità.

Pacelli ricorda senz'altro il precedente della Società delle Nazioni, sistema estremamente punitivo delle potenze sconfitte nella prima guerra mondiale, e che aveva generato desiderio di vendetta e di rivincita soprattutto nella Germania. Pio XII, che la Germania aveva conosciuto molto bene per avervi esercitato le funzioni di nunzio apostolico, prima a Monaco di Baviera e poi a Berlino, teme sicuramente che, se persistesse la solidarietà di guerra, essa acuirebbe le divisioni tra vincitori e vinti e metterebbe in pericolo la pace.

Ci sono poi altri doveri che la comunità internazionale dovrebbe adempiere: alleviare le tensioni internazionali che mettono in pericolo la pace; facilitare l'emigrazione ai popoli da paesi in cui c'è penuria di materie prime; facilitare il libero accesso alle materie prime abolendo le restrizioni alle frontiere.

Pio XII arriva poi nel cuore di ciò che debba essere la volontà cristiana di pace. Essa «è forza, non debolezza o stanca rassegnazione. Essa è tutt'uno con la volontà di pace dell'eterno e onnipotente Dio».

Vergando il documento, poi, il Papa cancella queste parole: «Non può esservi indifferenza di fronte alla guerra di aggressione; questa è peccato». Purtuttavia, il suo discorso a questo punto si fa serrato. Pio XII sente il bisogno di spiegarlo in modo più compiuto: «Ogni guerra di aggressione contro quei beni, che l'ordinamento divino obbliga incondizionatamente a rispettare e a garantire, e quindi anche a proteggere e difendere – precisa il Papa nella sua seconda stesura – è attentato contro la maestà di Dio creatore e ordinatore del mondo. Un popolo minacciato o già vittima di una ingiusta aggressione, se vuole pensare ad agire cristianamente non può rimanere in una indifferenza passiva; tanto più la solidarietà della famiglia dei popoli interdice agli altri di comportarsi come semplici spettatori in un atteggiamento d'impassibile neutralità».

Pacelli ha certamente davanti agli occhi l'Europa dell'appeasement, ossia quell'atteggiamento acquiescente nei confronti di Hitler, cui fu concesso di prendersi sempre nuovi pezzi d'Europa sulla falsa premessa che ciò avrebbe salvaguardato la pace. A nostro avviso, è proprio l'Europa della Conferenza di Monaco quella che Pio XII ha in mente, quandoindica ai popoli ciò da cui devono guardarsi.

«Quanti danni ha cagionato» quell'indifferenza nei confronti della sorte del debole, scrive il Papa nella prima stesura del discorso. Le sue parole si fanno incisive nella seconda: «Chi potrà mai valutare i danni già cagionati in passato da una tale indifferenza, ben aliena dal sentire cristiano, verso la guerra di aggressione? Come essa ha fatto provare più acutamente il senso della mancanza di sicurezza presso i “grandi”; e soprattutto presso i “piccoli”! Ha forse essa in compenso portato qualche vantaggio? Al contrario, essa non ha fatto che rassicurare e incoraggiare gi autori e i fautori di aggressione, mettendo i singoli popoli, abbandonati a sé stessi, nella necessità di aumentare indefinitamente i loro armamenti».

Per Pio XII, è' proprio la situazione prodottasi alla vigilia della seconda guerra mondiale; le potenze democratiche evitarono di opporsi ai colpi di mano di Hitler, non essendo ancora pronte al confronto armato con la Germania nazista, ma si riarmarono massicciamente (soprattutto la Gran Bretagna) il più possibile per un conflitto ormai inevitabile.

Ecco perché, per Pio XII, la vera pace non si ottiene a buon prezzo. «Appoggiata in Dio e sull'ordine stabilito da Lui, la volontà cristiana di pace è dunque forte come l'acciaio. Essa è di una ben altra tempra che il semplice sentimento di umanità».

Duro è però il giudizio che Pacelli non consegna al mondo ma trattiene per sé, proprio in merito a questo semplicismo umanitario. Esso è «troppo spesso patetico ed estetizzante o talvolta quasi sentimento estetico»: si aborrisce la guerra come fatto in sé, senza soffermarsi sui motivi che l'hanno provocata. In Pio XII vi è quindi tutto il biasimo, durissimo si diceva,nei confronti di quell'irenismo di facciata di una pace purchessia, senza por mente agi obblighi di giustizia.

Nelle correzioni che, sullo stesso foglio, il Papa effettua poi di suo pugno, il giudizio viene precisato. Questo irenismo, per il papa, è un atteggiamento fatto «di pura impressionabilità, che non aborrisce la guerra se non a causa dei suoi errori e delle sue atrocità, delle sue distruzioni e delle sue conseguenze, e non anche dalla sua ingiustizia. A un tale sentimento, d'impronta eudemonistica e utilitaria, e di origine materialistica, manca la salda base di una stretta e incondizionata obbligazione. Esso crea quel terreno (bastantemente noto, avrebbe annotato poi cancellando questo inciso, n.d.r.), nel quale allignano l'inganno dello sterile compromesso, il tentativo di salvarsi a spese di altri, e in ogni caso la fortuna dell'aggressore. Ciò è così vero, che né la sola considerazione dei dolori e dei mali derivanti dalla guerra, né l'accurata dosatura dell'azione e del vantaggio, valgono finalmente a determinare, se è moralmente lecito, od anche in talune circostanze concrete obbligatorio (sempre che vi sia la probabilità fondata di buon successo), di respingere con la forza l'aggressore».

Le nuove relazioni internazionali devono quindi basarsi sulla fine di atteggiamenti passivi e compiacenti nei confronti dell'aggressore, basati sul falso presupposto che una pace ingiusta è sempre meglio di una guerra difensiva giusta per respingere l'aggressione. «Una cosa però è certa – spiega ancora il Papa – . Il precetto della pace è di diritto divino. Il suo fine è la protezione di beni della umanità, in quanto beni del Creatore. Ora fra questi beni alcuni sono di tanta importanza per la umana convivenza, che la loro difesa contro la ingiusta aggressione è senza dubbio pienamente legittima». Aggettivo, questo, che rafforza in modo significativo il concetto che il Papa vuole esprimere, rispetto a quella difesa semplicemente «giustificata» nella prima stesura).

«A questa difesa è tenuta anche la solidarietà delle nazioni, che ha il dovere di non lasciare abbandonato il popolo aggredito – prosegue il Papa – . La sicurezza, che tale dovere non rimarrà inadempiuto, servirà a scoraggiare l'aggressore e quindi ad evitare la guerra, o almeno, nella peggiore ipotesi, ad alleviare le sofferenze. In tal modo rimane migliorato il detto: Si vis pacem para bellum, come anche la formula pace a tutti i costi. Quel che importa, è la sincera cristiana volontà di pace. Ad averla ci muovono senza dubbio lo sguardo alle rovine dell'ultima guerra, la silenziosa condanna, che sale dai grandi cimiteri, ove si allineano in file interminabili le tombe delle sue vittime, la ancora inappagata nostalgia dei prigionieri, l'angoscia e l'abbandono di non pochi detenuti politici, stanchi di essere ingiustamente perseguitati».

Il muto rimprovero delle tombe di guerra impone dunque questa nuova visione: una sorta di “terza via” fra comportamenti estremistici, atta a trarre il meglio dai due atteggiamenti in una sorta di via mediana: che non è irenismo ad libitum, ma neppure avallo delle ragioni di chi vorrebbe un aumento indiscriminato degli armamenti (e in particolare di quelli nucleari), tralasciando il doveroso dialogo con la parte avversa.

In un tale contesto di crescita della comunità internazionale, un'attenzione particolare il Papa riserva anche alla Palestina, che vive proprio in quel momento una situazione assai delicata dopo la nascita dello stato d'Israele, cui non segue quella di uno Stato palestinese, secondo i dettami delle Nazioni Unite, bensì una guerra lanciata dalla Lega araba contro il nuovo Stato ebraico, da cui quest'ultimo uscirà vittorioso. Pur nella sospensione delle ostilità, non vedendo ancora segnali di pace, il Papa auspica vivamente «una soluzione che, mentre venga in soccorso ai bisogni di tante migliaia di miseri profughi, soddisfi al tempo stesso i voti di tutta la cristianità, ansiosa per la tutela dei Luoghi santi, rendendoli liberamente accessibili e protetti mediante la costituzione di un regime internazionale». La frase cancellata dal papa appare più rivelatrice: «massime con la loro internazionalizzazione».

Delicatissima locuzione, che è alla base, ancor oggi, di un'annoso dibattito e di una differenza di posizioni fra Israele e Vaticano in Medio Oriente.